Presentazione
(di Nicola R.)
Il
nostro è un viaggio di ritorno, poiché fino all'età di vent'anni non ci
eravamo accorti di vivere sopra un’isola.
Poi
quando ce ne siamo andati, puntando decisamente verso nord, durante cinque
lunghi anni, abbiamo scoperto l’isola ch’era in noi.
E’
incredibile con quale lucidità affiorino memorie impresse nel dna, quando sei lontano dalla
tua terra.
Puoi
sentire nell’aria, in mezzo al caos ed ai fumi di una metropoli, il sale
del mare mescolato alla zagara ed allo zolfo del vulcano;
oppure
confondere il cigolio delle rotaie del tram con le ruote di un carretto
carico di frutti profumatissimi;
oppure
ancora scambiare il suono di una sirena lontana con il grido di un
venditore di gelsi…
…Cresceva
l’isola dentro di noi e già si delineavano le note, i rumori e i colori
dei mercati del sud;
si
materializzavano e prendevano corpo, assieme all’ansia del ritorno, i
personaggi di mille fiabe e leggende ascoltate distrattamente.
E
poi, dopo un interminabile viaggio, un attraversamento di acque che sapeva
di un ribattezzarsi.
L'album
“St’Isula” rappresenta l’urgente bisogno di raccontare una parte
di noi, quella parte dell’esperienza terrena.
La
profonda sacralità di un luogo si rivela nei comportamenti della gente
che lo vive.
Certo
non sa di sacro l’ostentata virilità del Puro Masculu
Sicilianu, eppure essa fa parte di un retaggio che affonda le sue
radici nei tempi;
Non
è strano invece, che a raccontarlo sia una donna, perché proprio lei,
“preda apparente”, è la saggia e paziente tessitrice su cui si
impernia tutta la cultura mediterranea.
E’
donna anche Panagia, la potente magara che con uno sputo ed una
preghiera, è capace di scacciare il male dal corpo del malato, così come
è femmina la levatrice che fa nascere in un drammatico parto (Nesci)
un’altra femmina indesiderata, in una nobile famiglia siciliana del
‘700.
La
realtà in quest’isola di Sicilia, tende a confondersi col mito, così
come un’improvvisa fuoriuscita di rosso incandescente magma lavico dal
vulcano, che ad un tratto si condensa immobilizzandosi in nera pietra.
Nera
come l’abito delle donne che vestono il lutto.
Nero
come il vestito di una donna (Niru) che dopo avere versato tutte le
lacrime per la perdita del compagno, si scioglie i capelli lasciandoseli
cadere sulle spalle, in segno di trasandatezza e di abbandono, perché
nera è la morte così come è nero il colore del mistero che la
rappresenta.
E
poi acqua, acqua e sempre acqua a volontà; liquido amniotico che ci
circonda e ci avvolge;
E’
acqua del fiume Ciane (Ciano) di Siracusa, quella da cui si
materializza nuda, in una notte di plenilunio, una donna, per rivivere
intensi amplessi col suo amante;
ed
è acqua di mare invece – che porta sventura, sordido e cupo terrore che
giunge dall’oriente su veloci galere – quella dei turchi (Mamma li
turchi), che rubano, stuprano e scannano, mettendo a dura prova i
siciliani…
E’
in questa dimensione che il sublime, l’incanto ed il magico si mescolano
alla cruenta violenza, così come la meravigliosa natura mostra l’altra
sua faccia crudele ed inesorabile; i siciliani sembra l’abbiano
capito…
È
‘na rosa la me terra, è nu ciuri profumatu,
ci
su’ munti, ci su’ ciumi, ca si perdunu 'nto mari;
ma
sa strinci forti forti, a 'sta rosa profumata,
poi li senti li so spini e lu sangu
'nta li mani..
(“La
Rosa”- inedito di Vacalebre I.)
Trad.:
E’
una rosa la mia terra, è un fiore profumato,
ci
sono monti, ci sono fiumi che si perdono nel mare;
ma
se la stringi forte forte questa rosa profumata,
poi
le senti le sue spine che insanguinano le mani.
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